o come caratteristiche non narrative possono diventare il mezzo descrittivo della realtà immaginaria del regista

Ogni grande regista ha la sua firma. Da Quentin Tarantino a Tim Burton, qualunque sia la trama, un regista capace sa farsi riconoscere. Riprese lunghe e scorci, o un classico ed anacronistico bianco e nero sono le canoniche firme di Tarantino. Volti emaciati e lugubri scenari, che siano animati o interpretati rendono riconoscibile il gotico Burton.
C’è un’artista, un regista sulla carta, che però gioca con simmetrie, colori e prospettive, come un pittore.
Con i gialli caldi e i verdi dipinge l’India talmente bene che è possibile sentire l’odore pungente delle spezie mischiato a quello dolce dell’incenso dei tempi indù e l’amaro del tè:

O con il rosso scuro e il blu l’inquietudine giovanile di un adolescente che vuole fare tutto dalla vita e che ancora non tiene nulla:

O ancora il verde e il rosa antico per una famiglia disgregata, assurda, distrutta ma che tenta ancora di riunirsi un’ultima volta per rattoppare i buchi di una vita smembrata:

E infine usare lo stesso rosa per dipingere una buffa e tenera storia d’amore, d’amicizia e di profumi inebrianti:

questi sono alcuni dei capolavori di Wes Anderson, ma non sono tutti.
Amo questo regista perché utilizza il linguaggio non verbale dell’immagine per raccontare un mondo di emozioni e sentimenti oltre la storia, perché esalta ogni forma di amore e lo dipinge in tutte le sue età e perché con storie tranquille, che scaldano il cuore e rilassano la mente, trasmette molti più messaggi di quanto farebbe uno schizofrenico film d’azione. Wes Anderson è riuscito a calmare le acque in un mondo cinematografico sempre più rapido e agitato, il quale segue a ruota la realtà, creando un’onirica e visivamente appagante dimensione.
Francamente penso che il suo mondo fosse svanito molto prima che lui vi entrasse, ma devo dire che lui vi sostenne l’illusione con grazia magistrale.
Zero Moustafa; Grand Budapest Hotel