Il Pianista

di Beatrice Leva

e come la più piccola felicità possa celarsi ovunque

Il Pianista (The Pianist), film del 2002, diretto dal celebre regista Roman Polànski, racconta le vicende di un acclamato pianista ebreo di Varsavia, perseguitato per la sua appartenenza etnica.
La trama è tratta dal racconto dall’omonimo romanzo autobiografico di Władysław Szpilman e racconta di quanto ha vissuto, dallo scoppio della seconda Guerra Mondiale, a partire dall’invasione della Polonia da parte delle wehrmacht, coprendo l’occupazione di Varsavia, la creazione, la vita, la fuga e sopravvivenza fuori dal ghetto, fino alla liberazione della città da parte dell’Armata Rossa.

Władysław durante tutto il film sopravvive e riesce a ragionare lucidamente anche nei momenti più drammatici perché è spinto dalla consapevolezza, che pure nell’orrore, esiste la bellezza che si manifesta in diversi contesti, a partire dall’amore per la musica fino ad arrivare ai piccoli gesti di aiuto e mutuo soccorso di chi lo aiuta nel corso della storia.

Queste due stupende dimostrazioni di bellezza umana culminano con l’evento incredibile di un soldato nazista che durante l’inizio della capitolazione del Reich, sentendo il disperato e in punto di morte pianista, si offre di aiutarlo ad aprire una scatola di piselli.

Questo dimostra ancora una volta che anche nelle brutture della guerra l’umanità del singolo può trionfare. Contemporaneamente insegna che le azioni di un singolo individuo possono realmente modificare il corso di una storia, magari non della Storia in senso assoluto, ma per una singola esistenza umana. Questa parte rende comprensibile come abbandonarsi al fatalismo del corso degli eventi storici come qualcosa di immutabile sia un’idea disfattista che non rende per nulla giustizia a chi, anche nel suo piccolo, agisce per il bene.

Il film si concentra inoltre sulla resistenza ebraica di Varsavia, invertendo il meccanismo che spesso si innesta nella rappresentazione degli ebrei, messi sovente sotto la luce di rassegnate vittime sacrificali, dimostrando ed umanizzando la reazione di moltissimi ebrei ai soprusi

Guardando questo film mi sono venute in mente le parole conclusive del romanzo “Essere senza destino” del premio Nobel Imre Kertész, dette dal protagonista ebreo di ritorno dal lager.

Entrambi i protagonisti di queste due opere d’arte si ritrovano a dover reinserirsi in un contesto sociale che aveva volutamente deciso di cancellarli, e cercano di farlo consapevoli delle difficoltà che certamente incontreranno ed entrambi, in maniera differente, riescono a riconoscere barlumi di umanità in mezzo a quell’orrore

Il sopravvissuto della Shoah, infine, credo sia colui che riesce a sopravvivere alla memoria degli eventi traumatici che ha vissuto, riuscendo a trarre insegnamenti importanti da queste memorie senza che esse lo distruggano.

” (…) io ci sono e so bene che, pur di poter vivere, il prezzo che pago è di accettare qualunque punto di vista. E mentre lascio vagare il mio sguardo sulla piazza che riposa tranquilla nella luce del tramonto, sulla strada provata del temporale eppure piena di mille promesse, già avverto crescere e lievitare in me questa disponibilità: proseguirò la mia vita che non è proseguibile. (…)
non esiste assurdità che non possa essere vissuta con naturalezza e sul mio cammino, lo so fin d’ora, la felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. (…)”

“Essere senza destino” di Imre Kertész

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