Vi è mai capitato di fare delle teorie riguardanti la vostra serie TV preferita, o magari cercare di dare una spiegazione a qualcosa che non sembrava proprio avere senso? Questo succede perché il nostro cervello è naturalmente portato a inventare storie e a credere a quelle che vengono raccontate.
Quella del racconto è un’arte praticata dall’essere umano fin dall’antichità. Inizialmente in forma orale, le narrazioni sono state messe in forma scritta per tramandare conoscenze e tradizioni. Lo scopo di queste era insegnare qualcosa, dare spiegazioni ai fenomeni naturali oppure semplicemente intrattenere. La narrazione è efficace perché cerca di dare un senso e un’interpretazione alla realtà, legando quindi la dimensione interiore con quella esteriore.
La fallacia narrativa, fenomeno per cui cerchiamo di ridurre la complessità dei fatti trovandovi una spiegazione, è messa in atto da quando iniziamo ad apprendere. Anche nell’ambito educativo vengono raccontate delle storie per ricordare meglio le nozioni; per esempio la tecnica di memoria PAV (paradosso azione vivida), di cui sono venuta a conoscenza per imparare i nomi dei nervi encefalici, consiste nell’associare ad un elemento (in questo caso il nome di un nervo) un’azione paradossale e vivida, in poche parole una storia assurda, magari divertente, e per questo facile da ricordare.
Oggi lo storytelling viene usato, a livello professionale, soprattutto sui social e/o per scopi di marketing; è un metodo efficace che si basa su un comportamento antico e radicato nella natura dell’essere umano. Nonostante l’utilizzo innocuo nell’ambito economico, esistono delle note negative riguardanti questo fenomeno. Nell’era dei social è evidente quanto sia potente la parola e una storia raccontata in modo convincente. Molte volte viene ascoltato e seguito di più qualcuno che è bravo a raccontare e rigirare informazioni false o solo parzialmente vere, piuttosto che qualcuno che possiede le idee “giuste” ma non è in grado di comunicarle. Gli utenti dei social, trovandosi davanti a una narrazione convincente, si trovano a concordare totalmente con ciò che leggono e ascoltano senza fermarsi a ragionare con spirito critico. Ciò apre la via non solo alla diffusione di fake news, ma anche alla polarizzazione delle idee, cioè alla credenza che sia tutto “bianco o nero” senza considerare le sfumature della realtà.
Mi spiego meglio: spesso leggo sui social opinioni riguardanti sessismo, parità di genere, razzismo e così via. Gran parte delle volte la parola parte da un influencer che, con una buona capacità comunicativa, per esempio accusa di sessismo un altro influencer a causa di un commento fatto da quest’ultimo. A questo punto i follower del primo influencer segnalano, attaccano, diffamano il secondo senza nemmeno essersi fermati a pensare alla faccenda e a indagare più a fondo. Mi è capitato anche di discutere con queste persone, cercando semplicemente un confronto, ma la maggior parte delle volte non sono riuscite a darmi ulteriori argomentazioni. Questa è la dimostrazione che la loro “opinione” si basa su quella di qualcun altro che è semplicemente bravo a esporla, soprattutto quando si tratta di fatti di cronaca intorno ai quali è molto semplice costruire una storia che dia sostegno alla propria idea.
Personalmente penso che altri fenomeni non direttamente legati allo storytelling, ma molto simili, siano ugualmente pericolosi. Scrivere un titolo fuorviante su un articolo di giornale è paragonabile allo storytelling (almeno a livello social), con la differenza che la storia viene raccontata in poche parole e può mandarci totalmente fuori strada. Faccio un esempio che mi è rimasto particolarmente impresso: l’anno scorso è apparso sul profilo instagram di La Repubblica un post con titolo “Lo stalking non è più un aggravante per il reato di femminicidio. Un passo indietro di almeno 12 anni sulla difesa delle donne”. Ovviamente nei commenti si è scatenato il caos. In effetti il titolo non mentiva: l’aggravante di stalking ha cessato di esistere perché il reato lo “assorbe”, portando però ad una pena maggiore, fino all’ergastolo. Eppure ho visto tantissime persone repostare indignate la notizia, evidentemente senza aver verificato la realtà dei fatti (non hanno nemmeno tutti i torti, visto che a pubblicare il post è stata una testata giornalistica molto importante, ma questo è un altro discorso).
Raccontare storie è un’arte potente che può portare a risultati positivi da una parte e conseguenze molto pericolose dall’altra. È fondamentale imparare a non lasciarsi ingannare da un’esagerazione o reinvenzione della realtà e mantenere sempre il cervello in attività, pronto a giudicare con spirito critico ogni informazione che incontra.