Momento unico al Dialogo nel Buio
di Melissa Ernestino e Beatrice Picone

Giovedì 31 marzo, le classi quinte di scienze umane, con i relativi accompagnatori, si sono recate in gita scolastica all’Istituto dei Ciechi, che ha sede a Milano in via Vivaio, 7. Lo so cosa state pensando: un’altra gita barbosa sotto la pioggia, con l’ombrello che si rompe e il treno in ritardo… no, no, non è questo il genere. L’Istituto dei Ciechi ha una missione, ossia la piena integrazione delle persone ipovedenti e non vedenti, sia sul piano individuale che su quello collettivo.
Arrivati lì, noi studenti siamo stati accolti dal personale dell’Istituto, che ci ha messo al corrente del tipo di attività che avremmo svolto. Divisi in gruppetti e dotati di un bastone apposito, siamo stati accompagnati da una guida ipovedente o non vedente attraverso un percorso completamente al buio, con l’obiettivo di comprendere cosa significasse, negli atti pratici e quotidiani, non potersi affidare alla vista, dando così importanza agli altri sensi, spesso dimenticati e sottovalutati. Il percorso era costituito da vari ambienti, ognuno con delle caratteristiche differenti e che presentavano diversi elementi da cogliere soprattutto mediante tatto e udito. Innanzitutto, prima di accedere alla prima stanza, è avvenuto l’incontro con la propria guida, con abbiamo potuto presentarci e condividere le nostre emozioni e i nostri stati d’animo. Man mano che procedevamo nel percorso, la luce gradualmente si affievoliva fino a lasciare posto al buio, dinanzi al quale eravamo sostenuti solo dal bastone ed eventualmente dal compagno davanti (scusa Bea, mi sto riferendo a te ma perché tu lo sappia, non sono stata io a colpirti con il bastone). In tutto gli ambienti erano cinque ma non chiedeteci come apparivano perché, se non l’aveste capito, era completamente buio.
La prima stanza era costituita da due tipologie di pavimento: inizialmente vi erano sassi e tutt’intorno piante, come la tuia (facciamo le intellettuali ma noi abbiamo scoperto cos’è grazie a internet) e tronchi di alberi; in seguito, invece, si camminava sull’erba e spostandosi lateralmente si poteva trovare una roccia e un ruscello e udire il cinguettio degli uccelli. L’entrata al secondo ambiente è stata resa possibile dall’attraversamento di un ponte, un po’ troppo traballante per i nostri gusti, che permise di arrivare ad una barca. Dopo esserci saliti, abbiamo immaginato che la barca ci conducesse su un’isola, che è scaturita dalla nostra immaginazione. Subito dopo la breve tratta sulle acque del mare (o almeno è quello che sembrava sentendo il richiamo dei gabbiani), entrammo in un appartamento.
Al suo interno c’erano diverse stanze e ognuna di essa conteneva dei semplici oggetti quotidiani: ogni gruppo doveva capire cosa fossero, con il solo utilizzo del tatto. Secondo voi ci riuscimmo? *suspense* Potremmo lasciarvi col dubbio ma come potete ben immaginare.. beh, qualcuno meglio di altri. Gli oggetti in questione erano dei quadri con la presenza di animali in rilievo, come un serpente, un pinguino o addirittura un cavalluccio marino. Non c’è bisogno che vi diciamo che è stata un’impresa ardua, in cui abbiamo scambiato un pinguino per un delfino e un serpente per un polpo. Inoltre, vi era un quadro con la seguente frase “Il piacere della lettura è anche sulle punta delle dita” (così come lo è in questo momento per voi, o almeno ce lo auguriamo) e oggetti tipici di una casa, come un pettine, uno spazzolino e delle posate.
Gli ultimi due ambienti erano quelli che portavano rispettivamente a una strada con annesso semaforo, e un bar. E’ stato spiegato come le persone ipovedenti o non vedenti capiscono quando è il momento di attraversare la strada e quando invece è il momento di aspettare sul marciapiede: se è verde e dunque è possibile attraversare, il semaforo emette un suono in modo continuo; al contrario, se è rosso, non emette alcun tipo di suono (se ti trovi in una grande città, prova a prestare attenzione e forse da oggi lo sentirai anche tu). Infine abbiamo avuto modo di bere una bibita fresca a nostra scelta al bar ed essere serviti dunque, come non sempre accade durante le nostre giornate, da una cameriera ipovedente. Inoltre, è stato il momento in cui la guida ha avuto la possibilità di rispondere alle nostre domande e curiosità.
Le domande emerse nel nostro gruppo sono state le seguenti: capire qual è la differenza tra l’essere ipovedenti e non vedenti; se è più facile abituarsi a questa condizione essendolo dalla nascita o diventandolo dopo; come rendere per loro più agevole la quotidianità e se ritengono che il termine “cieco” sia appropriato o meno.
Innanzitutto, rispondendo alla prima domanda, una persona ipovedente, a differenza di una non vedente, vede molto male avendo solo un decimo o un ventesimo della vista; per alcune persone, inoltre, nonostante si trovino in questa condizione fin dalla nascita, è difficile accettarlo. Riflettendo poi sulle difficoltà che essi incontrano nella loro quotidianità, è possibile affermare che potrebbe essere agevolata dalla presenza di più semafori caratterizzati dai suoni riconoscibili nel momento dell’attraversamento pedonale e dalla sintesi vocale nei siti Internet (se sei curiosa/o, corri a leggere l’articolo di Luna “Voglio essere semplicemente trattato come Matteo”).
Infine, discutendo sull’utilizzo del termine cieco, sul piano semantico non vi è alcuna differenza e dunque si può scegliere quale usare: ovviamente varia dal contesto e dal modo in cui ci si esprime.
E’ stata un’esperienza unica, che ci ha permesso di capire l’importanza degli altri sensi, mettendo in secondo piano quello della vista, cosa che non accade nella quotidianità.
Una volta concluso questo percorso, abbiamo acquisito maggiore consapevolezza su ciò che tendiamo a considerare come disabilità, non comprendendo invece che si tratta di una diversità nell’approcciarsi alla vita.
In conclusione, ricorda che *frase ad effetto* “Non occorre guardare per vedere lontano”.