di Giorgia Di Pasquale
Pubblichiamo la riflessione di una studentessa a seguito dell’incontro sulla legalità del 31 marzo con Salvatore Borsellino.

Un incontro virtuale all’insegna della legalità è stato quello di mercoledì 31 marzo, organizzato dal nostro Istituto B. Russell di Garbagnate Milanese su iniziativa del Professore di Scienze Umane e Sociali Leone Raul Tolisano, e che ha visto come ospiti due importanti protagonisti della giustizia sulla scena attuale: Salvatore Borsellino, attivista italiano e fratello minore dell’ex magistrato italiano Paolo Borsellino, icona della lotta antimafia che fu vittima di Cosa Nostra della strage di Via D’Amelio del 1992 e Luigi De Magistris, attuale sindaco di Napoli ed ex magistrato italiano.
Cercare di capire cosa significhi veramente il termine legalità e soprattutto come non farlo rimanere un concetto sulla bocca di molti ma sulle mani di pochi, a questo hanno contribuito i racconti delle esperienze dei due personaggi, dando vita ad una delle più autentiche ed emozionanti lezioni di educazione civica della storia della nostra scuola. Dopo una breve introduzione relativa al tema dell’incontro avvenuta per voce delle dirigenti Giuseppina Pelella e Giuseppina Marzocchella dei rispettivi licei Statali Russell-Fonatana di Garbagnate-Arese ed “Elsa Morante” di Napoli, aderenti alla conferenza, è seguito l’ intervento di De Magistris. Il sindaco di Napoli non ha mancato di salutare caldamente il suo alleato di giustizia nonché grande amico Salvatore, che quando De Magistris, nel 2007, ancora PM fu condannato ingiustamente con l’accusa di abuso d’ufficio per l’illecita acquisizione dei dati di traffico dei parlamentari, ha mostrato un’incoraggiante e affettuosa vicinanza al Sindaco. L’ex magistrato italiano, nato a Napoli il 20 giugno del 1967, racconta di essersi laureato in Giurisprudenza e di aver intrapreso la carriera di magistrato a soli 26 anni, ancora molto giovane, ma con valori già ben consolidati e forti. E’ proprio per difendere ideali come la libertà, l’onestà e il coraggio che decide di scegliere la strada della giustizia. Una strada travagliata, a cui non è sempre facile rimanere fedeli, soprattutto in mancanza di forti motivazioni, che talvolta suscita paura, “ma la paura diventa un problema, solo quando è un sentimento che prevale sugli altri, da contrastare attraverso il coraggio, che quando si hanno ideali forti, non è un atto eroico, ma un atto di ordinaria normalità” suggerisce De Magistris.
Egli sostiene dunque la necessità di quella che era stata chiamata dai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino “Rivoluzione culturale”, in quanto la Mafia esige di essere combattuta da tutti, da una coscienza civile che disprezzi a gran voce la coscienza criminale, e che si mostri più potente di essa, agendo quotidianamente con una cultura antimafiosa. E’ proprio questo che significa “testimoniare la legalità” secondo l’ex magistrato. Bisogna quindi avere il coraggio di ricostruire le stragi di mafia, ripudiando l’indifferenza, arma vincente delle organizzazioni criminali stesse. Solo così infatti può attuarsi una democrazia compiuta. De Magistris conclude il suo discorso, rivolgendosi ai giovani, raccomandando loro di ribellarsi a qualsiasi forma di schiavitù, costruendosi il libero pensiero e difendendo sempre le opinioni che si reputano giuste, anche a costo di andare in direzione ostinata e contraria, comericordail cantautore italiano Fabrizio De André.
Dopo il breve ma intenso intervento del sindaco di Napoli, c’è stato il lungo e commovente discorso di Salvatore Borsellino, nato a Palermo l’11 aprile del 1942, che dopo la morte del fratello si è dedicato attivamente alla sensibilizzazione riguardo al contrasto della criminalità organizzata, fondando il “Movimento Agende Rosse”, nato con lo scopo di fare chiarezza sulla strage di Via d’Amelio, nella quale furono uccisi il fratello e gli agenti di Polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Claudio Traina, Eddie Walter Cosina e Vincenzo Li Muli.
“Oggi sono qui per parlare di mio fratello Paolo non in quanto magistrato, ma in quanto uomo”, questa è stata la frase con cui ha esordito Borsellino, che dopo essersi fatto coraggio, ha iniziato a raccontare, con parole ancora colme di una rabbia indelebile, quella che per lui è stata la strage che gli ha portato via il fratello. La definisce una strage di Stato, a cui sono seguiti ben quattro processi di cui due manomessi da un falso pentito. Una strage che non è stata rivendicata da alcuna verità, di fronte alla quale “lo Stato chiude tutte e due gli occhi, altrimenti dovrebbe processare se stesso. Paolo infatti non è stato ucciso dalla mafia”, chiarisce Salvatore, “è stato ucciso perché aveva scoperto una trattativa tra Stato e mafia, in particolare, l’accordo di non belligeranza stipulato con Cosa Nostra, in seguito ad una trattativa fondata sul tritolo delle stragi in Sicilia del 1992 ed in continente del 1993”. Le ragioni di credere a tale alleanza, vengono ulteriormente confermate dalla scomparsa dell’Agenda Rossa di Paolo, simbolo emblematico della falsa legalità di cui si maschera spesso un’oscura ipocrisia, a tal punto da determinare il nome del movimento stesso fondato da Salvatore, che si propone di combatterla. L’agenda infatti, contenente parte dei colloqui investigativi intrattenuti dall’ex magistrato, era stata riposta da Paolo nella sua borsa di cuoio poco prima di recarsi dalla madre per accompagnarla dal medico, e il giorno stesso, dopo che il carico di Tritolo prese fuoco, sparì, nonostante la borsa fu ritrovata intatta. Ed è qui che Borsellino esclama “Non si parla di legalità, se prima non si è ritornati in possesso del suo significato”, parole che lasciano spazio all’umiltà, manifestata dal silenzio che domina nell’aula virtuale. Per questo, dopo la morte del fratello, Salvatore, supportato anche dalla madre, inizia ad andare in giro nelle scuole a parlare ai giovani, per non fare morire il sogno di Paolo, un sogno d’amore, “poiché quando si sa che la morte deve arrivare, il coraggio da solo non basta”, racconta commosso. Così Inizia a diffondere, a gridare la speranza di un uomo che, come testimonia una lettera indirizzata ai ragazzi di un liceo di Padova scritta il giorno della sua morte, aveva fiducia nei giovani, di un uomo che credeva nella loro sensibilità e attenzione, ben diversa da quella “colpevole indifferenza” che si era attribuito lui fino all’età di quarant’anni, colpevolizzandosi del fatto di essersi dedicato sino a quel momento solo di giustizia civile. “Era ottimista, ma che cos’è l’ottimismo in un uomo che sa di dover morire?”
Quando muore sua madre, è Salvatore a perdere quell’ottimismo che era stato l’arma vincente del fratello, così smette di parlare ai ragazzi. Racconta che lo fa perché non se ne attribuiva più il diritto, non volendo fingere una speranza altruista che invece era stata così autentica nel fratello fino al suo ultimo giorno. E’ la rabbia, unita ad una fiducia rinnovata, che lo spinge, dopo dieci anni di silenzio, a ricominciare a voler a tutti i costi ridare vigore alla parola legalità, senza il bisogno di pronunciarla, ma solamente raccontandola, attraverso la storia di chi non vi ha mai rinunciato. Solo così infatti, continuando a dare voce a chi l’ha utilizzata come mezzo per difendere un una speranza fondata sull’amore, non per se stesso, ma per le generazioni future, se ne può comprendere il vero significato.
Segno di tale speranza è l’albero di ulivo fatto piantare dalla madre di fronte a Via D’Amelio in una delle buche rimaste dall’esplosione, in cui i giovani si recano e lasciano un segno, un oggetto per loro significativo, mostrando come ogni singolo pezzo che viene donato rappresenti un passo in più verso la realizzazione del sogno d’amore di Paolo.